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Alan Moore, Jerusalem (recensione)

(articolo uscito sulla “Lettura” del “Corriere della Sera” del 3 dicembre 2017)

Re, leggenda, dio dei fumetti: sono alcuni degli epiteti che si possono trovare normalmente accanto al nome di Alan Moore, e non suonano esagerati considerando la portata del suo lavoro nel medium, del quale è considerato il maggior autore di sempre. Non solo per il suo capolavoro Watchmen, ma anche per i “capolavori minori” sotto di esso, opere come From Hell o V for Vendetta, che nella carriera di un altro autore sarebbero considerati i picchi di una vita, e ancora per l’influenza avuta dal suo immaginario sulla cultura popolare – basti pensare alle maschere di Guy Fawkes divenute il simbolo di Anonymous e presenza fissa in qualunque manifestazione contro il potere, le quali vengono proprio da V for Vendetta.
Formatosi nella rivista “2000 AD” che fu la palestra del nuovo fumetto inglese, assieme a colleghi come Grant Morrison, Jamie Delano, Peter Milligan e Neil Gaiman fu tra gli autori chiamati a infondere nuova linfa nel fumetto americano. Cauta, la DC Comics affidò loro personaggi oscuri e dimenticati; a Moore toccò Swamp Thing, la “cosa della palude”, le cui vicende horror da tempo mostravano la corda. Trasformò la serie in una riflessione metafumettistica su temi eterogenei come i generi della “speculative fiction”, l’ecologismo e la magia, ma il vero impatto di Moore nella storia del fumetto arrivò nel 1986 con Watchmen. Partendo da un universo supereroistico secondario come quello della Charlton Comics, reinventandolo e innervandolo di echi a quelli di tutte le altre case editrici, Marvel e DC comprese, portò il postmodernismo nel fumetto americano, ma non solo: se da noi, in Francia o in Giappone era chiaro da tempo che il fumetto era un’arte degna di rispetto, negli USA restava “roba per ragazzini”. Furono lo Watchmen di Moore, assieme al Batman reinventato da Frank Miller nel suo Cavaliere oscuro, a far saltare per sempre questo pregiudizio.
Dopo il successo mainstream, guadagnatosi piena libertà creativa, Moore lanciò svariate nuove serie sempre caratterizzate da grande temerarietà (l’intertestualità gotico-avventurosa della Lega degli straordinari gentlemen, la kabbalah meta-mitologica di Promethea, la pornografia colta di Lost Girls…) ma cominciò anche a sentire il richiamo del romanzo – e, forse, della piena legittimazione culturale che esso può offrire. Il collega Neil Gaiman aveva del resto cambiato medium con grande successo, così nel 1996 ci provò anche Moore con La voce del fuoco, che proprio di Gaiman recava la prefazione. Se però quest’ultimo era passato dal sublime al “solo” eccellente – nessuno dei suoi bestseller, come Neverwhere o American Gods, è un capolavoro della letteratura quanto Sandman lo è del fumetto, ma restano dei gran bei libri –, La voce del fuoco, schiacciato dalle proprie ambizioni (su tutto basti citare l’arco narrativo di seimila anni), finiva per risultare pretenzioso e poco incisivo, perdonabile solo perché proveniente dall’autore di almeno tre delle migliori opere fumettistiche di ogni tempo.
Alan Moore non è però tipo da abbassare l’asticella di fronte a un fallimento. Così, dopo vent’anni (e dieci di lavoro), torna con un romanzo ancora più ambizioso: le 1540 pagine di Jerusalem, uscito nel Regno Unito nel 2016 e ora anche in Italia, grazie alla traduzione di Massimo Gardella. Il romanzo, ironicamente, esce per Rizzoli Lizard, la divisione fumetto di Rizzoli, così come La voce del fuoco era uscito per le edizioni BD, pure specializzate in fumetti, sebbene l’intento dichiarato di Moore fosse allora, e sia oggi, quello di lasciarsi dietro quel medium e andare all’assalto del romanzo contemporaneo con un’opera massimalista, dalla portata sterminata.
Si parte così dalla storia di Michael e Alma Warren, discendenti della famiglia operaia dei Vernall, caratterizzata da una tradizione di pazzia e visionarietà, e dall’opera d’arte-totem che Alma realizza sulla base delle allucinazioni di Michael, ritrovatosi capace di ricordare ciò che esperì quando, a tre anni, si trovò sospeso tra la vita e la morte. Da lì Alan Moore ci cala nella realtà degradata dei “Boroughs”, zona storica della città industriale di Northampton dove lui stesso è nato, ma solo per aprire le porte di un mondo simile a quello di un Dickens stregato e infradimensionale. Temi cari all’autore come l’eternalismo – la concezione secondo cui il tempo esisterebbe solo nella percezione umana, e passato, presente e futuro coesisterebbero –, la sincronicità, gli universi paralleli, l’equivalenza tra sogno e realtà, si incrociano con altri grandi temi del romanzo contemporaneo, come la mitopoiesi degli ultimi, il problema della trascendenza, l’amplificazione della coscienza e l’integrazione della perdita. Nell’alternanza tra la storia della famiglia Vernell e quella delle controculture a Northampton, e in quella tra romanzo gotico, romanzo realistico e pura riflessione filosofica, la volontà di Moore è trovare una sintesi tra l’affresco sociale di Dickens, l’epica del quotidiano di Joyce, la metafisica dell’assenza di Beckett, l’intertestualità beffarda di Pynchon e la sensibilità mistica di Blake, dal cui inno Jerusalem il romanzo mutua peraltro il titolo. Il tutto senza rinunciare a incursioni nei “generi” (troviamo una gang di bimbi fantasma, viaggi nel tempo e salti tra le dimensioni) e nella psichedelia, dato che nei “costruttori” di Jerusalem si possono riconoscere i “machine elf” delle visioni da DMT del filosofo e psiconauta Terence McKenna.
Difficile tenere insieme tutto questo, anche con millecinquecento pagine a disposizione: se Moore ci fosse riuscito, avrebbe scritto uno dei più grandi romanzi di tutti i tempi; anche fallendo (e in effetti fallisce), ha realizzato un’opera capace di avvicinarsi, almeno per ambizione e portata, a un capolavoro come il Lanark di Alasdair Gray, la cui doppia città Glasgow/Unthank appare molto vicina alla sua Northampton/Mansoul, così come analogo appare lo spirito di forte critica sociale nascosto dietro la speculazione fantastica.
Il fatto è che, nonostante un’intelligenza esorbitante corredata da larghezza di respiro e conoscenza enciclopedica dei riferimenti letterari, mitologici e teologici, un romanzo così lungo e grandioso deve reggersi anzitutto sullo stile. La prosa di Moore, priva del consueto supporto dei disegni, appare invece viziata da una pedanteria di fondo e da un un eccesso di descrizioni inutili, finendo per perdersi, nonostanti i frequenti colpi di genio a livello di idee di trama e ambientazione, in un sovraccarico che non è mai vero virtuosismo, e che non trova sponda in una metafisica di spessore sufficiente a farsi carico di così tanto materiale. Leggendo Jerusalem, e sentendo la volontà di sfondare ogni limite che traspira dalle pagine, viene quasi da rassicurare l’autore: da dirgli che può stare tranquillo, ché alla storia c’è già passato, ma per Watchmen, per From Hell, per V for Vendetta. Non per Jerusalem, che resta comunque una ragguardevole epica contemporanea dal sapore modernista, meritevole, nonostante tutto, di un suo posto nell’operazione di sfondamento dei generi e apertura alle nuove metafisiche che sta avendo luogo in Europa con l’opera di autori come Antoine Volodine, Mircea Cărtărescu o Tom McCarthy, e di cui proprio il Lanark di Gray può essere visto come involontario capostipite. Alan Moore non avrà cambiato la storia della letteratura come ha cambiato quella del fumetto, ma lascia un romanzo ponderoso che riesce a eternizzare Northampton e la sofferenza delle sue classi subalterne, gridando allo stesso tempo che il mondo di tutti i giorni non è mai quello che sembra: niente è come appare, ammonisce Moore, tutto è connesso, e i portali possono nascondersi ovunque.

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