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Richard Cox, Un’estate da ragazzi (recensione)

(articolo uscito sulla “Lettura” del “Corriere della Sera” del 30 luglio 2017)

Per quanto giochi a volte troppo col potere della nostalgia, e per quanto citazionismo non significhi sempre intertestualità, tra i meriti della fortunata serie Stranger Things dei fratelli Duffer c’è senz’altro quello di aver riacceso l’interesse intorno a classici della produzione di Stephen King come il racconto Il corpo (più noto nella sua versione cinematografica col titolo Stand by me) e soprattutto It, di cui il mese scorso Sperling & Kupfer ha portato in libreria una nuova edizione rivista e aggiornata. Se una delle caratteristiche dell’editoria contemporanea, per quel che riguarda i “generi” ma non solo, è il cercare storie che assomiglino ad altre che hanno avuto successo, la pubblicazione di questo Un’estate da ragazzi dello scrittore texano Richard Cox (Baldini & Castoldi, traduzione di Sonia Folin) mira certamente a muoversi nella scia del successo di Stranger Things (è di questi giorni il lancio della seconda stagione, che uscirà su Netflix in ottobre) e a capitalizzare l’attuale retromania per gli “eighties” e il ritorno di interesse per il cuore della produzione di King.
La linea è infatti quella dei due succitati romanzi del maestro di Portland, ma vengono in mente anche La sottile linea scura di Joe Lansdale, L’inverno della paura di un Dan Simmons prestato all’horror (uscito negli USA nel 2002, lo portò in Italia, cinque anni più tardi, Gargoyle) e, per quanto riguarda l’atmosfera generale, la scuola di Dennis Lehane. Il territorio in cui si muove Cox è quindi quello dei racconti di formazione innervati di noir, quando non di horror tout court, con una vena latente che ammicca al southern gothic. Nel 1979 un enorme tornado – classe F4, la più elevata mai registrata fino a quel momento – colpisce la città texana di Wichita Falls lasciando dietro di sé una scia apocalittica (nella realtà storica il tornado causò quarantadue morti in città e altri sedici nei dintorni); tra i tanti colpiti c’è un ragazzino di nove anni, Todd Willis, che finisce in coma e rimane in uno stato sospeso tra catalessi e sonnambulismo per quattro anni. Quando Todd si sveglia, fa amicizia con altri quattro ragazzi, Adam, Bobby, David e Jonathan, le cui vite sono state pure, a vario titolo, squassate dal tornado. I quattro, incuriositi dall’atteggiamento bizzarro di Todd – dopo il risveglio dalla “schizofrenia catatonica”, questa la diagnosi, appare più maturo della sua età, stranamente determinato e dotato di una sorta di prescienza – lo reclutano nel gruppo. Nasce così un club a cui danno il nome di “Boys of Summer”, da una canzone di Don Henley, batterista degli Eagles che negli anni ’80 si lanciò in una carriera solista. Canzone suonata loro proprio da Todd, col dettaglio non trascurabile che ciò avviene due anni prima della sua effettiva pubblicazione.
Insieme, e secondo uno schema arcinoto, che da King passa per I Goonies per arrivare proprio a Stranger Things, i cinque ragazzini diventeranno adulti nel corso di un’estate rovente dove scopriranno l’alcol, l’amore e il tradimento, ma anche il vandalismo – il gruppo, influenzato proprio da Todd, si dedicherà ad atti di crescente violenza che culmineranno con un incendio e con la scomparsa di un ragazzino che aspirava a unirsi a loro – e soprattutto condivideranno un segreto così terribile da richiedere un patto di silenzio.
Quando, venticinque anni dopo, giunge la notizia di una serie di incendi appiccati a luoghi cittadini rilevanti nelle vite di ciascuno di loro, appare evidente che qualcosa di ostile è tornato ad agire a Wichita Falls: il gruppo, ormai adulto, dovrà riunirsi per contrastarlo, operazione che porterà i suoi componenti a confrontarsi con gli aspetti più oscuri del loro passato.
Se suona come qualcosa di già sentito, l’impressione è corretta: troppo spesso sembra di ritrovarsi in una replica di It con qualche spruzzata di Nightmare on Elm street, e i riferimenti all’opera di King che punteggiano il testo rafforzano una tale sensazione, piuttosto che dar sostanza a un’intertestualità purtroppo mancata, mentre le note più nere, verso cui si indirizza il libro sul finale, finiscono per allontanare il lavoro di Cox dalla profonda umanità di quello del suo ispiratore.
Nell’alternanza tra gli eventi del 1983 e quelli del 2008, in capitoli contrapposti e speculari, sempre inaugurati da una “previsione del tempo” poco rassicurante, Cox dipinge decorosamente le tensioni proprie della prima adolescenza e riesce a giocare, sia pure con qualche ruffianeria di troppo, con elementi della cultura popolare anni ’80, da Dungeons & Dragons all’Atari; assai meno incisivo è il tratteggio dei personaggi adulti, che risultano sprovvisti dello spessore necessario a confrontarsi credibilmente coi loro stessi del passato, e anche lo scenario dell’America contemporanea che si legge sottotraccia appare animato da una critica sociale vaga, fuori fuoco e di scarso nerbo.
Se Stranger Things superava ogni rischio di epigonalità in virtù di un citazionismo così esasperato da inserirsi, ancorché tardivamente, nella tradizione del postmodernismo, Un’estate da ragazzi, dopo un avvio promettente, finisce per essere un emulo, fedele ma ripetitivo, che si muove nell’ombra troppo grande di Stephen King senza trovare un proprio vigore, anche a causa della scarsa forza dei personaggi, la cui caratterizzazione, in romanzi di questo genere, ha un’importanza decisiva nel dare sostanza e passo alla vicenda. Anche il colpo di scena finale finisce così per trovare un lettore troppo spossato, dopo cinquecentoventotto pagine che avrebbero potuto essere la metà, per lasciarsi davvero emozionare.

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