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Rimbaud e Verlaine

(articolo uscito sulla “Lettura” del “Corriere della Sera” del 6 novembre 2016)

Se la letteratura avesse mantenuto la propria prominenza nell’immaginario popolare, esisterebbero forse nelle città turistiche dei “cafè” simili a quelli in cui si espongono memorabilia del rock, ma consacrati agli oggetti di scrittori e poeti. Il mondo è andato in un’altra direzione, e il feticcio letterario trova rilievo solo quando riguarda gli autori massimi. Solo raramente le grandi case d’aste ne vedono passare uno: nel 2001 Christie’s batté la macchina da scrivere di Kerouac; quattro anni fa da Sotheby’s passarono un anello di Jane Austen e il portasigarette di Agatha Christie; lo scorso settembre Julien’s ha battuto le ceneri di Truman Capote. Se, fra tutti, vi è un autore che viene facile considerare “massimo”, anzi rispetto al quale si è sempre in ritardo, come se il suo “bisogna essere assolutamente moderni” si fosse posizionato oltre il tempo, quello è Arthur Rimbaud: non stupisce allora l’interesse intorno all’incanto, previsto per il prossimo 30 novembre presso la sede parigina di Christie’s, della pistola con cui Verlaine, al culmine della storia d’amore più tragica, raccontata e speculata della storia della letteratura, gli sparò contro.

Il revolver che Paul Verlaine acquistò la mattina del 10 luglio 1873 all’armeria Montigny di Bruxelles, per 23 franchi. L’arma con cui minacciò di uccidersi e poi fece fuoco due volte, cogliendo Rimbaud al polso (il secondo colpo andò a vuoto, prendendo il caminetto della camera dell’Hôtel à la Ville de Courtrai in cui alloggiavano durante l’ennesimo, tormentato incontro, immediatamente successivo al loro periodo londinese). L’arma alla quale, di nuovo, mise mano nel pomeriggio, portando Rimbaud a denunciarlo. Denuncia ritirata qualche giorno più tardi, ma sufficiente a insinuare nel giudice qualche dubbio circa la natura di un’amicizia così burrascosa. Verlaine fu consegnato a umilianti esami pseudoscientifici atti a scoprire se il suo corpo recasse i segni del vizio. La commissione stabilì di sì, e il poeta fu sbattuto in carcere per due anni. La pistola fu sequestrata e se ne persero le tracce, finché non fu scoperta presso un privato ed esposta per la prima volta alla mostra “Verlaine, cella 252” a Mons, in Belgio, nel 2015. La pistola di Verlaine, dunque: eppure, se oggi desta interesse globale (e un’attesa minima di vendita intorno ai 60’000 euro) è certamente per via di Rimbaud.
Rimbaud è sempre feticcio (chi non possiede una sua raccolta, comprata negli anni di liceo per l’idea che egli incarnava, prima che per le opere?); Rimbaud è sempre mito. “Si dice che Vitalie Rimbaud, nata Cuif, partorì Arthur Rimbaud,” scrive Pierre Michon nella biografia più fortunata del poeta, Rimbaud il figlio, e con quel “si dice” lo posiziona subito nel campo della leggenda. Come tale, il poeta sfugge a ogni facile fissaggio, ed è per questo che ogni ritrovamento, ogni foto sbiadita che esce dal baule di un antiquario, finanche la scoperta di un singolo verso (nel 2009 l’ultimo: “L’eternel craquement des sabots dans les cours”, riportato sul Gaulois del 23 febbraio 1885) è un evento. I memorabilia rimbaldiani hanno infatti un compito ulteriore: tentare di fermare, almeno nella storia, lo sfuggente, il simbolo stesso dell’irriducibilità. Rimbaud non si fissa, non si categorizza, non si possiede. Non lo si può sottomettere – i parnassiani e gli zutisti, primi circoli poetici con cui entrò in contatto a Parigi, e lo stesso Verlaine, comunque “principe dei poeti”, erano destinati a esserne bruciati come dal passaggio di una cometa – ma neanche si riesce a bloccarlo posizionandolo all’apice di qualcosa. Definito, negli anni, padre del decadentismo, del simbolismo, del surrealismo (“l’essere più straordinario che abbia mai solcato la terra” per Cocteau), del modernismo (per l’intuizione dell’intertestualità nel Battello ebbro), della psichedelia (da Ginsberg, per la Lettera del veggente: “bisogna farsi veggente, attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi”), antesignano del punk e del femminismo (da Patti Smith, per il suo rifiuto di ogni convenzione e per le sue affermazioni circa la necessità di una liberazione di genere), inventore dell’identità gay moderna per il biografo Graham Robb (e per Edmund White, autore del godibile La doppia vita di Rimbaud); precursore addirittura del postmodernismo per la fuga improvvisa e mai rinnegata dalla letteratura, intesa essa stessa come atto artistico, come scrive, tra gli altri, Jamie James nel Rimbaud a Giava, di recente pubblicazione in Italia per Melville Edizioni, e finanche della singolarità tecnologica (“La scienza, la nuova nobiltà! Il mondo cammina! Perché non dovrebbe svoltare? È questa la visione dei numeri. Andiamo verso lo Spirito…”). Ovunque lo si collochi, Rimbaud è già un passo avanti: il caso più stupefacente e insolubile della storia della poesia, come ebbe a scrivere Palazzeschi, fa parte a sé, senza le parentele che i poeti hanno fra di loro, e sfugge quindi a ogni definizione che non sia iperbolica. Ecco la critica Edith Sitwell a definirlo iniziatore della prosa moderna, ecco René Char che parla del primo poeta di una civiltà non ancora nata, e ancora Fénéon che lo mette al di fuori e al di sopra di ogni letteratura, Mallarmé che parla di un “dio della mitologia”, Camus di “oracolo sfolgorante”… È un attimo e ci ritroviamo con Jim Morrison a definirlo “salvatore della razza umana”, e senza sentirci esagerati. Questo è Rimbaud. Se ha parentele, sono quelle da lui stesso indicate: diciassettenne, riconosce un solo re, Baudelaire, e un solo vero poeta sotto di esso, quel Paul Verlaine che lo avrebbe invitato a Parigi, certo del suo genio, che se ne sarebbe innamorato, che da lui avrebbe tratto lo strappo necessario anche alla propria grandezza, che invano avrebbe tentato di trattenere a sé.
“Venite, cara grande anima, vi chiamiamo, vi aspettiamo,” scrive Verlaine nell’agosto del 1871, in risposta alle lettere e alle poesie del giovane Arthur.
‘‘T’insegno io a volertene andare,’’ urla lo stesso Verlaine a Rimbaud due anni più tardi, mentre fa fuoco. In mezzo, si è consumata la loro storia d’amore, il cui scandalo avrebbe distrutto il matrimonio del primo e fatto odiare il secondo da quegli stessi circoli parigini che si erano inchinati al suo arrivo. Braccati dalle maldicenze (e dalla moglie di Verlaine), le loro fughe si sono fatte sempre più goffe e rocambolesche, e l’abuso d’assenzio non aiuta. L’ultima li ha portati prima a Londra, poi a Bruxelles. Sono le 14:30 del 10 luglio 1873 quando Verlaine, dopo l’ennesima lite, fa fuoco.

Così si arriva alla pistola. Al revolver Lefaucheux 7 millimetri noto come Pet de lapin (tutto, in Rimbaud, riverbera: il francesista penserà al lapin dei versi di Festa galante, scritti da Verlaine e ricomposti in altra forma da Rimbaud; il biografo vedrà un lampo del destino di mercante d’armi del Rimbaud adulto; il visionario coglierà un segno nel fatto che si tratta dello stesso modello con cui diciassette anni dopo si sarebbe ucciso Van Gogh). Due colpi esplosi, un terzo colpo minacciato. Verlaine usa l’arma per trattenere Rimbaud, per fissarlo. Il risultato è opposto. Il poeta diciannovenne si separa definitivamente dall’amante e si chiude in un granaio della natia Charleville per scrivere Una stagione all’inferno. È il suo testamento: dopo, lo troveremo scaricatore a Livorno, soldato e disertore a Giava, poi a Vienna, Colonia, Brema, al seguito di un circo a Amburgo, e ancora a Stoccolma e Copenaghen, a Cipro, nello Yemen e infine in Etiopia, dove si ferma a Harar facendosi mercante. Ogni momento della sua vita è buono per sprigionare storie, e le moltissime biografie lo testimoniano, ma il momento dello sparo è quello decisivo – non ne manca una che parte proprio da lì: Una sconosciuta moralità di Giuseppe Marcenaro, uscito per Bompiani nel 2013 –, è la lacerazione da cui nasce l’abbandono, prima di Verlaine e poi della letteratura. “La mia giornata è compiuta,” scrive Rimbaud in Una stagione all’inferno: “lascio l’Europa. L’aria marina mi brucerà i polmoni; i climi remoti mi abbruniranno…”. Così il poeta, artefice ultimo del proprio destino, si consegna al mito, all’impossibilità di qualunque irreggimentazione, e dona a ogni oggetto che lo riguardi, che sia testo autografo, fotografia o pistola d’amante, un’aura da cui si irradia la sua storia, ogni volta in modo diverso e atto ai tempi – e così sarà per chi si aggiudicherà la Lefaucheux, ma Rimbaud, a quel punto, sarà già altrove.

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