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“Cattivi” in letteratura

[articolo uscito sulla “Lettura” del “Corriere della Sera” del 19 febbraio 2017]

Per fare una buona storia ci vuole un buon cattivo. Concetto ben noto agli sceneggiatori cinematografici – cosa sarebbe Star Wars senza Darth Vader? Alien senza l’alieno? Conan senza Thulsa Doom? Batman senza il Joker di Ledger o quello di Nicholson? – e che vale anche in letteratura, ma che, nella più lunga storia del medium e nelle più ampie possibilità concesse dal lungo respiro che ha un romanzo rispetto a un film, ha conosciuto molte più mutazioni, tanto da accettare ormai – a volte addirittura come necessaria – anche l’idea di posizionare il “villain” direttamente nel ruolo dell’eroe: tre dei romanzi in assoluto più importanti del canone recente, Le Benevole di Jonathan Littell, American Psycho di Bret Easton Ellis e Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, traggono il loro fascino e il loro stesso significato dal posizionare tre personaggi di totale, ancorché differente, malvagità al centro della scena: l’Haupsturmfürher Max Aue, unitosi alle SS per proteggersi in quanto omosessuale ma fervido aderente ai dettami dello sterminio; lo yuppie serial killer Patrick Bateman, uscito da Wall Street, e il serafico e sapienziale male incarnato del Giudice Holden, vero capo della banda Glanton, una squadraccia di assassini e cacciatori di scalpi.
Per poter arrivare fino a questi romanzi, usciti rispettivamente nel 2006, nel 1991 e nel 1985, e ai loro protagonisti, è necessario attraversare l’intera storia della letteratura occidentale. Alle origini del male, in fondo all’Inferno stesso, troviamo naturalmente il Satana di Dante Alighieri. Egli non appare quasi come entità attiva o pensante: quando Dante e Virgilio arrivano nel nono girone, destinazione dei traditori, conficcato laggiù nel ghiaccio trovano un mostro enorme ma impassibile nel suo masticare Bruto, Cassio e Giuda: sorta di “mulino del male”, per riprendere la definizione di Edoardo Rialti, il Satana dantesco pare ormai non coinvolto, quasi non-personaggio, mero generatore, se non solo simbolo, dei mali del mondo. Se il Tasso lo riprenderà nella Gerusalemme Liberata dandogli un vigore umano e una sua macabra bellezza (Orrida maestà nel fero aspetto / terrore accresce, e piú superbo il rende: / rosseggian gli occhi, e di veneno infetto / come infausta cometa il guardo splende / gl’involve il mento e su l’irsuto petto / ispida e folta la gran barba scende, / e in guisa di voragine profonda/s’apre la bocca d’atro sangue immonda), ci vorrà Milton col suo Paradiso perduto, tra le opere che più hanno influenzato la nascita del Romanticismo, per dargli, tre secoli dopo, personalità, motivazione e un fascino maudit (se non ce l’ha lui…) che non gli è più andato via di dosso – ne sono testimoni, tra i tanti, Bulgakov col suo Voland, ma anche i Rolling Stone con Sympathy for the devil.
Se, già prima di Milton, Shakespeare aveva dato vita a malvagi tuttora mirabili – Iago, re Claudio, Riccardo III, Lady Macbeth, le figlie di Lear… la lista è infinita – ciò sul breve pareva inserirsi solo nelle necessità e nei meccanismi della tragedia, e il genio shakesperiano lancerà così le proprie influenze molto lontano: sarà solo nell‘800 che l’arte del “villain” letterario comincerà a maturare. Dickens, caratterista sommo, ne sarà maestro – il viscido Uriah Heep in David Copperfield, la scheletrica miss Havisham di Grandi speranze, il disgustoso Fagin di Oliver Twist… – ma nessuno dei suoi personaggi, nonostante lati umani e possibili redenzioni, uscirà dalla dimensione relativamente ristretta dell’antagonista. Va meglio in Francia (dove si erano già visti dei cattivi molto moderni nel visconte di Valmont e nella marchesa di Mertueil delle Relazioni pericolose, uscito alla fine del secolo subito precedente), dove Lautreamont, nei Canti intitolati al loro protagonista, si inventa un Maldoror del tutto compiaciuto del male che lo pervade. Ma è in Russia che, con Fëdor Dostoevskij, si gettano le basi del villain contemporaneo: il cervellotico e contraddittorio Raskol’nikov di Delitto e castigo, lo spiritato Stavrogin, vero motore occulto degli eventi dei Demoni, lo Smerdyakov dei Fratelli Karamazov, sono già in grado di prendere per sé la scena e incarnare aspetti del male senza bisogno di essere collocati in qualche casellario delle funzioni del personaggio. È così che a partire da loro, e con relativamente pochi contributi da parte della letteratura italiana – dopo il Satana dantesco ci limiteremo ad avere il traditore Gano di Maganza dell’Orlando Furioso e le piccinerie da prepotente locale di un Don Rodrigo – che si veleggia, attraverso il Novecento, fino agli Aue, ai Bateman e agli Holden.
Per giungere però a simili personaggi, in grado di unire in sé due coppie di aspetti contrastanti – la caratterizzazione tipica degli antagonisti unita a una personalità sufficiente a non finire nella macchietta; l’incarnazione di una tipologia di “male assoluto” (Aue l’adesione per comodo a un sistema malvagio, Bateman il vuoto morale e valoriale, Holden la fede in un’idea di intrinseca crudeltà della natura) unita a un sufficiente spessore psicologico da renderli credibili come personaggi di romanzi comunque realistici – si deve passare anche dalle evoluzioni che i “generi” hanno avuto nel ‘900. Senza dimenticare gli splendidi e sovraccarichi villain di Ian Fleming e del suo Bond, l’apporto del fumetto supereroistico – di nuovo Batman, sulla pagina ancor prima che sullo schermo, ma anche gli eroi della Marvel hanno costruito le loro fortune su ben progettati cattivi – né il nostro Eco, che ben sapendo di stare giocando anche coi generi ha cura di dotare Il nome della rosa di ben due villain, l’inquisitore Bernardo Gui e il venerabile Jorge, non si può sottovalutare l’apporto di King. Con figure quali il proteiforme Pennywise di IT o il carismatico Randall Flagg dell’Ombra dello scorpione, ha modernizzato la figura del cattivo, ne ha ampliato la possibilità di incarnare il male “per se” e rinnovato i dettami estetici: per quanto McCarthy giochi su un altro livello linguistico, è difficile negare che il suo Holden sia una figura kinghiana, e l’ombra di King, che si moltiplica nella lista sterminata delle opere di narrativa, cinema e TV che hanno subito la sua influenza, è ben presente anche in Max Aue e Patrick Bateman. È così che si arriva alla distillazione, da parte di Littell, Ellis e McCarthy, dei cattivi più puri e memorabili della letteratura contemporanea, i quali, grazie anche alla forza della lingua, che si mette al loro solo servizio nell’arco dei rispettivi romanzi, riescono a un tempo a spaventarci da fuori e farci venire i brividi da dentro. Il loro segreto, infatti, prima della facilità con cui uccidono e praticano la crudeltà, è essere portatori dell’idea più spaventosa: quella che il male, che sia per l’affermarsi di un totalitarismo, per il vuoto valoriale di una società basata sul solo denaro o per lo “homo homini lupus” di un Far West privo di qualunque bussola morale, più che giusto o sbagliato, sia inevitabile.

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